venerdì 14 giugno 2013

Italiani all'estero (armati): se 5551 vi sembran pochi - Redazione domenica 9 giugno 2013 23:12

I BRAVI RAGAZZI(un po fascisti)
Ci sono 200mila militari che non vanno mai in guerra. E' come se fossi ingegnere e lo Stato mi pagasse per rimanere a casa a giocare coi Lego [Fabio Bellacicco]
di Fabio Bellacicco da           http://popoff.globalist.it/

Perché mai dovremmo ritirare i nostri militari dall'Afghanistan? Sì ne saranno morti anche 53, ma sono i rischi del mestiere. Prendete gli autisti dei tir, quanti ne saranno deceduti da quando hanno inventato il trasposto su camion, qualche migliaio? Eppure nessuno si indigna per il ritiro dalle strade degli autisti eroi italiani.

La verità è che i militari impegnati nelle missioni all'estero sono invece troppo pochi. L'Esercito conta circa 110.000 unità, la Marina 37.000, l'Aeronautica Militare altri 45.000, ma sono solamente 5.551 i soldati che svolgono il loro lavoro fuori dalla noatra nazione.

Non lo trovate ridicolo? E' come se decidessi di laurearmi in ingegneria edile, mi iscrivessi all'albo degli ingegneri italiani e lo Stato mi pagasse per rimanere a casa mia ad esercitarmi con i Lego. Cittadini: "Ehi, per quale motivo dobbiamo pagarti lo stipendio per restare a giocare con le costruzioni?

Io: "Guarda che se ci colpisce un terremoto devastante poi io vi ricostruisco le case!" Cittadini: "Ah, ok."

E no, non funziona così. Prendiamo i nostri circa 200.000 militari e mandiamoli tutti in guerra. Volete un'idea? La Svizzera è uno Stato neutrale da sempre, che cazzo ne saprà di combattimenti, invadiamola. Non se l'aspetteranno mai e poi mai.

Un'altra? Costa Rica, è il primo Paese senza un esercito, attacchiamo lì, così finalmente la smetteremo di andare in vacanza a Rimini.

Basta con le missioni di pace, è ovvio che le perdiamo, ci mandiamo dei tizi armati. Riprendiamo a fare le guerre: avremo più eroi.



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lunedì 27 maggio 2013

NOI per una opposizione radicale alle larghe intese, politico e sindacale

OPPOSIZIONE CGIL
Coordinamento Puglia

Bari, 27 maggio 2013

NOI per una opposizione radicale alle larghe intese, politico e sindacale
NOI per una democrazia partecipata in Cgil


Mentre il Paese vive una crisi senza precedenti, nella quale milioni di giovani sprofondano nella depressione per l'alto tasso di disoccupazione e più di otto milioni di cittadini sono stati confinati, a causa delle politiche criminali dei governi Berlusconi, Monti e Letta-Berlusconi, nella fascia di povertà assoluta, il gruppo dirigente nazionale della Cgil pensa che la soluzione di tutti i problemi è percorrere la strada di un nuovo PATTO SU RAPPRESENTANZA E DEMOCRAZIA, in forte continuità con l'accordo del 28 giugno 2011 e il modello Marchionne.


Decidono tutto a Roma, quasi in clandestinità, e nulla è dato sapere nei luoghi di lavoro in assenza di una preventiva consultazione dei lavoratori sui quali il nuovo patto dispiegherà tutti i suoi effetti negativi.

Se dovesse passare questa infausta idea di CGIL-CISL-UIL e Confindustria, lo Statuto dei Lavoratori, così come l'abbiamo conosciuto nella sua pratica attuazione, sarebbe spazzato via e i destini di milioni di lavoratori sarebbero segnati e rimessi alle decisioni di pochi pseudo sindacalisti che hanno deciso di difendere le proprie prerogative annientando la DEMOCRAZIA dentro il Sindacato e nei Luoghi di Lavoro.

Nella CGIL tutto il quadro dirigente periferico è sostanzialmente omologato alla così detta maggioranza che ha rinnegato persino i contenuti della propria mozione congressuale che pure qualcosa di accettabile conteneva.
DUNQUE, lavoratori traditi che pure avevano riposto fiducia nella linea tracciata all'ultimo congresso.

Ma anche la FIOM ha deciso la politica del gambero se come è vero nell'ultimo suo Comitato Centrale ha approvato un documento di condivisione del nuovo patto su Rappresentanza e Democrazia proposto da CGIL-CISL-UIL e Padronato.

Ma che fine ha fatto la coerenza?


Si dichiarano dal palco a migliaia di lavoratori i propri intendimenti ma se ne praticano altri.

In questo PATTO c'è un parolina, quasi nascosta e resa insignificante: Esigibilità.
Significa esattamente che per sederti al tavolo devi preventivamente sottoscrivere una esplicita rinuncia a contestare gli accordi che pure non si condividono. Sostanzialmente si annientano le minoranze che non potranno più opporsi ad accordi di maggioranza non condivisi. Viene negato anche il diritto di SCIOPERO previsto dalla Costituzione.

Perciò, come dovranno comportarsi le migliaia di lavoratrici e lavoratori di fronte alla minaccia di licenziamenti di ILVA, OM Carrelli Elevatori, Bridgestone, e altre realtà di produzione ?

Potranno sottoscrivere preventivamente impegni vincolanti ad accordi inaccettabili che potrebbero sottoscrivere i vertici sindacali di CGIL,CISL,UIL, senza il consenso democratico degli interessati?

Noi diciamo NO, non si possono accettare soluzioni che contrastano con la difesa dei più elementari diritti quali: diritto a scioperare, di ammalarsi, ad essere tutelato se si ritiene di essere stato ingiustamente danneggiato, a contrastare riduzioni o aumento indiscriminato di orario di lavoro senza giustificati motivi, a impedire la diminuzione ovvero la soppressione delle pause quando si è in catena di montaggio, ecc.ecc.

I lavoratori delle grandi e piccole fabbriche di Puglia (ILVA, Bridgestone, OM, ed altre) hanno la piena solidarietà e sostegno della RETE 28 Aprile-Opposizione CGIL La risoluzione delle predette Vertenze deve necessariamente passare dalla Nazionalizzazione delle Aziende in crisi, che negli anni hanno goduto di importanti finanziamenti pubblici senza alcun obbligo. Le istituzioni pubbliche devono procedere a tutelare il lavoro senza indugi, nonostante le minacce che potrebbero arrivare dalla TROIKA sulla decisione non più rinviabile alla NAZIONALIZZAZIONE.

Noi ci alleeremo con tutti quelli che vorranno difendere il lavoro, i lavoratori e la loro dignità.

Contrasteremo con ogni mezzo anche le larghe intese sindacali tra CGIL-CISL-UIL, che volessero fare accordi al ribasso passando sulla testa dei lavoratori.

NOI non ci sentiremo vincolati ad accordi che fanno macelleria sociale di Diritti e Democrazia.

Giuseppe Catucci
Portavoce Regionale

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giovedì 9 maggio 2013

ANCORA UNA TRAGEDIA INACCETTABILE NEL PORTO DI GENOVA

Pubblicato da sincri il 9 maggio 2013 

Molte sono le domande che si pongono sulle cause di questa nuova tragedia che si è consumata nel porto di Genova, anche se le risposte che potranno arrivare dalle inchieste aperte dalla magistratura e dalla Capitaneria di Porto non potranno più riportare in vita le sette vittime (ma forse il numero potrà ancora purtroppo crescere) di questo disastro.

Resta il fatto che ancora una volta balza all’attenzione della cronaca la compagnia armatoriale Messina e le sue navi Jolly, che hanno una lunga sequenza di naufragi, collisioni, traffici di rifiuti tossici e altro ancora.

E di Messina ricordiamo le sue esternazioni non solo in favore della cosiddetta autoproduzione, cioè del fare a meno dei lavoratori portuali per la movimentazione delle merci tra nave e banchina, ma addirittura per la liberalizzazione dei servizi nautici portuali (rimorchiatori, piloti, ormeggiatori), vale a dire in favore di una tale deregulation che comprometterebbe ulteriormente nei porti la sicurezza della navigazione e dell’approdo per navi, persone e merci, oltre che dell’ambiente eco-marino.

Resta il fatto che il tutto avviene a Genova, nel porto dei record, dove si è da poco brindato al superamento dei 2 milioni di TEU di movimentazione container nel corso del 2012.

Dove peraltro oltre il 20% di tali container movimentati è vuoto, con conseguenti spazi preziosi strappati alla città e ai suoi abitanti.

Un porto dove, a seguito della privatizzazione, convivono terminal diversi che si fanno concorrenza sulle spalle dei lavoratori, dove quindi convivono lavoratori in cassa integrazione ed altri che accumulano ore e turni di lavoro straordinario.

Sinistra Critica è vicina alle famiglie delle vittime di questo disastro e insieme a tutti i lavoratori per la battaglia per condizioni certe di sicurezza sul lavoro.

Non servono cerimonie e lutti cittadini se le condizioni di sicurezza sul lavoro continueranno ad essere sacrificate sull’altare della produttività.


Genova, 9 maggio 2013

Sinistra Critica
Coordinamento provinciale – Genova

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domenica 28 aprile 2013

Giuramento di sangue > Pubblicato da sincri il 28 aprile 2013 in Attualità, Politica

di Francesco Locantore

Questa mattina si sono sovrapposti due fatti che segneranno il clima politico della prossima fase. Il giuramento del nuovo governo, presieduto da Enrico Letta e una sparatoria davanti a palazzo Chigi, nel pieno centro di Roma, proprio davanti al palazzo del governo.

I primi commenti su quello che viene chiamato “attentato” (ma a chi?) colpevolizzano chi in questi giorni si è opposto all’inciucio politico istituzionale tra centrodestra e centrosinistra. La destra fascista di Alemanno, La Russa e Gasparri non ha tardato ad ascrivere l’episodio al clima di intolleranza contro il ceto politico che è stato montato in questo ultimo periodo in particolare dal Movimento 5 Stelle. Il presidente del Senato Pietro Grasso è stato chiaro sulle implicazioni politiche: occorre “mantenere la calma e avviare un periodo di coesione sociale”.

Mentre i giornalisti si buttano sulla vicenda ansiosi di capire se si tratta del gesto di un disperato o di un folle (o di un folle disperato?), ci sembra invece utile capire a chi giova un gesto del genere e quali funesti sviluppi annuncia?

Per capirlo basta spostare l’attenzione all’altro fatto del giorno, avvenuto a pochi metri dalla sparatoria: il giuramento del governo Letta. Quello che nasce oggi è un governo antipopolare, nel segno dell’accordo politico non più mascherato dai “tecnici” tra centrodestra berlusconiano e il centrosinistra egemonizzato dal Partito Democratico (SEL promette una “opposizione responsabile”, cioè complice della macelleria sociale che questo governo è chiamato a fare). Con buona pace degli elettori chiamati a votare per mandare a casa il Caimano Berlusconi una volta per tutte, ancora una volta illusi dalla retorica pre-elettorale dei dirigenti e candidati del PD.

E’ un governo antipopolare anche perché risponde alle domande confuse di rinnovamento politico che si sono espresse in questa stagione, con l’asserragliamento dei partiti politici che hanno già sostenuto il governo Monti e che sono usciti sconfitti dalle elezioni, in una nuova alleanza esattamente degli stessi soggetti.

Questo governo sa insomma di non godere del favore della pubblica opinione (altra cosa è l’opinione pubblica ufficiale delle grandi testate giornalistiche, controllate direttamente o indirettamente dai partiti di governo e dagli imprenditori a loro vicini) sin dalla nascita, e tanto meno di poterselo conquistare allargando i cordoni della borsa e distribuendo prebende in modo da ammorbidire la caduta inesorabile dell’economia italiana. La politica economia e sociale di questo governo, come abbiamo avuto modo di sottolineare in diverse occasioni, è già scritta nelle norme internazionali del fiscal compact, nel Six Pack e nel Two Pack (sotto trovi il link dell’articolo di Turigliatto del 22 febbraio), nella riforma costituzionale dell’articolo 81 che prevede l’obbligo del pareggio di bilancio.

Il governo Letta è l’espressione di un tentativo della borghesia italiana di fare quadrato per far fronte alla crisi, scaricandone ancora di più i costi sulle lavoratrici e i lavoratori, ed in generale sui settori sociali più deboli. A nulla valgono le operazioni di maquillage tentate con l’inserimento in alcuni ministeri poco significativi di giovani donne non legate agli interessi forti (pensiamo alla ministra per l’integrazione e a quella per lo sport). Il neoministro dell’economia Saccomanni, già direttore generale della Banca d’Italia, si è espresso chiaramente per ulteriori tagli alla spesa pubblica, in modo da non dover aumentare la pressione fiscale (sui più ricchi), e magari alleggerirla come ha promesso Berlusconi in campagna elettorale. Gli altri esponenti nei posti chiave del governo segnalano la continuità di indirizzo politico con l’esecutivo uscente: Alfano all’Interno (e vicepremier), la guerrafondaia Emma Bonino agli Esteri, la Cancellieri riconfermata alla Giustizia, Lupi alle infrastrutture, il “saggio” scelto da Napolitano, Enrico Giovannini, già presidente dell’Istat, al Lavoro, Maria Chiara Carrozza, rettrice di una università di eccellenza (come già lo era Profumo), all’Istruzione, Lorenzin (PDL) alla Salute, Moavero Milanesi riconfermato agli Affari Europei.

Questo governo avrà bisogno di comprimere gli spazi di democrazia e le manifestazioni di dissenso, a cominciare dai mal di pancia interni della “responsabile” opposizione di SEL e della timida nuova sinistra PD di Barca (in realtà ben più decise sono state le operazioni politiche da destra di D’Alema & co. durante l’elezione del Capo dello Stato, leggi l’articolo di Andrea Martini). Ma soprattutto occorre prevenire l’insorgenza di un movimento di massa contro le politiche dell’austerità imposte dall’Unione Europea.

Qui arriviamo alla risposta al quesito posto sopra: a chi giova l’episodio di piazza Colonna? Viene alla mente un episodio parallelo della storia italiana recente, quando il 16 marzo del 1978 fu rapito Aldo Moro nel centro di Roma, e poche ore dopo veniva votata la fiducia ad un esecutivo “di unità nazionale”, con il voto favorevole del PCI, in un clima in cui chiunque osava criticare l’operato del manovratore era accusato di fare il gioco delle Brigate Rosse. Oggi non è esattamente la stessa cosa, ma quello che è sicuro è che la borghesia che conta in Italia si prepara a far passare ulteriori misure antipopolari nonostante la sua classe politica non rappresenti che una minoranza esigua dell’elettorato. Il richiamo alla pace sociale e alla coesione di Grasso è significativo in questo senso.

Per parte nostra non ci faremo intimorire dalle parole di Grasso e andremo avanti nella costruzione di un movimento di massa anticapitalista e libertario, oggi più che mai necessario per rispondere in modo adeguato all’attacco della borghesia europea ai salari e ai diritti sociali e democratici.

http://sinistracritica.org/2013/02/22/da-una-campagna-elettorale-orribilis-al-dopo-voto/

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mercoledì 24 aprile 2013

Landini e Camusso verso il patto sociale

La strada comune e discorde di Landini e Camusso verso il patto sociale

di Sergio Bellavita (da rete28aprile.it)

La fase di incertezza e paralisi che sembrava prevalere dopo lo choc elettorale si è in realtà rapidamente risolta con un’accelerazione verso un nuovo patto sociale. Non era scontato che fosse questa la direzione. Lo tsunami politico di febbraio rendeva oggettivamente più complicata l’operazione in corso da mesi per l’adesione formale della Cgil al modello neocorporativo voluto da Cisl, PD e padronato. Un’operazione che faceva fulcro attorno all’ipotesi Bersani presidente del consiglio, un rinnovato collateralismo con un Governo a guida PD e quella legislazione di sostegno indispensabile per sopravvivere ad un sindacato che abbandona il modello democratico e vertenziale affermatosi negli anni settanta. (…)

ure, nonostante proprio il voto abbia dimostrato l’esistenza di uno spazio vasto di malessere, di rabbia che ha punito e umiliato con il voto chi ha praticato e sostenuto l’austerità e il rigore, uno spazio su cui e con cui agire per riaprire la partita sociale dopo la cocente sconfitta subita con la legislazione del governo Monti che ha cancellato l’art.18 e le pensioni da lavoro, la Cgil ha deciso di proseguire, anche senza (per adesso…) il governo collaterale, sulla strada del patto sociale. La Cgil poteva in sostanza rompere con il palazzo o condividerne la sua crisi. Ha scelto di stare con il palazzo, dimostrando, una volta di più, il pesante grado di subordinazione al PD. La ragione di questa scelta non va ricercata tuttavia nell’esito del voto, né nella drammatica congiuntura economica che falcidia ogni giorno salari,occupazione, aziende. Essa è semplicemente la conseguenza di un’adesione sostanziale a tutte le scelte di Governi e padronato che pure a parole si sono contrastate. Da almeno vent’anni a questa parte si sono assunte cioè tutte le compatibilità e le subordinazioni alla propria autonoma iniziativa a difesa di lavoratori e pensionati: quelle del sistema paese, dell’impresa, del mercato, dell’Europa. Persino le violente scelte del governo Monti su diritti e pensioni non hanno indotto la maggioranza dei gruppi dirigenti a dichiarare battaglia per tentare di impedire che il nostro sistema sociale diventasse, come è purtroppo accaduto, uno dei più brutali di quell’Unione Europea per la cui salvezza ci viene chiesto di sacrificare tutto.

La drammatica crisi di progettualità e rappresentanza è ciò che davvero unisce i gruppi dirigenti del centrosinistra politico e quelli della Cgil, il centrosinistra sociale. Il centrosinistra politico ha bisogno di un centrosinistra sociale che accompagni le dure politiche d’austerità ed il centrosinistra sociale ha bisogno di riconquistare quella legittimazione formale d’organizzazione nel sistema corporativo di relazioni, sia con Confindustria che con Cisl e Uil, persa con la scomparsa della concertazione.

La sconfitta delle elezioni politiche del PD è in fondo l’altra faccia della sconfitta sociale della Cgil.

La Confindustria è anch’essa parte di questa crisi. I pesanti colpi di Marchionne e il depauperamento progressivo del sistema industriale hanno costretto i dirigenti della Confindustria ad accettare un sistema che ridimensiona fortemente il ruolo politico e istituzionale della rappresentanza di un padronato che sempre più pensa, anche per l’inconsistenza dell’iniziativa sindacale, che si possa fare a meno di un’organizzazione onerosa e inefficiente. E’ così urgente per Confindustria produrre risultati concrete per le imprese associate.

La stessa Fiom dopo aver abbracciato l’accordo del 28 giugno e abbandonata ogni ipotesi conflittuale contro il modello neocorporativo è estremamente interessata a quanto accade sul terreno interconfederale nei rapporti con Confindustria, Cisl e Uil. E’ evidente che a quel livello si definisce quali saranno i termini del rientro della categoria nel sistema nascente, non dimentichiamolo, frutto degli accordi separati. Lo scontro Landini Camusso è quindi legato al prezzo che la Fiom dovrà pagare per rientrare. Non a caso la segreteria nazionale Fiom cerca di trovare un accordo di categoria con Fim e Uilm prima che si chiuda il cappio di un’intesa confederale che potrebbe essere pesantissima. Per questo obbiettivo ha reso disponibile la reintroduzione del patto di solidarietà nelle elezioni Rsu che regala rappresentanza in via pattizia a Fim e Uilm a prescindere dal voto dei lavoratori, patto disdettato nel 2009 a fronte della rottura sulle politiche contrattuali. Sta lavorando a chiudere i contratti nazionali oggi aperti, accettando in sostanza il modello contrattuale separato del 2009. Così come nel rapporto con Federmeccanica lavora a ridurre giorno dopo giorno le distanze, sia attraverso la contrattazione nei grandi gruppi, sia con una contrattazione tesa a migliorare il contratto separato del 2012 senza metterne in discussione l’applicazione e la legittimità. Così tutta l’agenda sindacale, persino negli appuntamenti calendarizzati, è divenuta variabile dipendente delle diverse trattative in corso.

Tanti interessi divergenti e convergenti spingono tutti i soggetti verso il patto sociale della miseria, come giustamente è stato battezzato da Cremaschi.

Ma su cosa si gioca davvero l’ipotesi di patto sociale? Non certo sulla democrazia nei luoghi di lavoro. Non certo sulla difesa del Contratto nazionale dalle deroghe accolte con l’accordo del 28 giugno 2011. Non nella crescita dei salari, umiliati dalla contrattazione di restituzione in corso e da un modello contrattuale separato, ormai condiviso nella pratica, che impedisce qualsivoglia recupero del potere d’acquisto dei salari. Non certo contro la precarietà, ormai accettata come condizione generale. Non certo nel blocco dei licenziamenti, nemmeno chiesto dalla Cgil, davanti al perdurare di una crisi economica senza precedenti.

Il continuo scambiarsi messaggi in bottiglia dei diversi attori, attraverso gli interventi sulla stampa, le interviste, i convegni, quando non i ripetuti incontri formali ed informali e le ripetute trattative non trattative testimoniano proprio lo stato di estrema agitazione, confusione e fretta che circonda la discussione sul patto. Come sempre tutto è ammorbato dall’utilizzo della “terminologia dell’ovvietà e delle buone intenzioni”: meglio l’unità che il conflitto; chiudere i contenziosi e le rotture; solidarietà; affrontare la crisi; partecipazione; salvare fabbriche e occupazione ecc. ecc.

L’obbiettivo dei padroni, del centrosinistra ma anche di parti rilevanti del centrodestra è in realtà uno solo: ricomprendere la Cgil e la Fiom nel nuovo modello neocorporativo.

Farlo in maniera organica in modo da impedire tentennamenti o ambiguità dei gruppi dirigenti sindacali nell’applicazione sociale e contrattuale delle politiche d’austerità. Il patto oggi metterebbe la parola fine su tutto il contenzioso che ha diviso la Cgil da Cisl e Uil e, parimenti, la Fiom da Fim e Uilm nell’ultimo decennio, comprese l’accettazione di tutta la legislazione contro il lavoro. Non è un caso che più nessuno parli di art.18 e pensioni. Con buona pace di chi, sull’art.18, negava la sconfitta e si affidava ad un referendum scomparso nel nulla.

C’è tuttavia, nelle pieghe di una discussione talvolta incomprensibile, il punto vero, l’obbiettivo strategico per il padronato Italiano. Tutto ruota intorno alla cosiddetta esigibilità degli accordi aziendali,un meccanismo per cui sindacati e lavoratori che sottoscrivono un’intesa non possono più scioperare per tutta la durata della stessa. Un meccanismo del tutto simile a quello imposto da Marchionne prima alla Chrysler negli Usa, poi in Fiat in Italia. Sarebbe la cancellazione cioè di ogni potere contrattuale dei lavoratori a favore di quello corporativo di organizzazione e quindi d’azienda, un altro passo del progressivo autoritarismo che sta riducendo giorno dopo giorno i livelli di democrazia sostanziale in questo paese, riscrivendo così la Costituzione e il diritto di sciopero. Non è accettabile lo scambio democrazia per esigibilità. Il voto dei lavoratori, importantissimo, non può essere la foglia di fico o peggio il viatico per la cancellazione del potere sindacale.

Un’ipotesi inquietante.

Su questo punto non v’è alcuna differenza tra i diversi soggetti, alcuna contrarietà emerge. Eppure tutti sanno che questo è un punto imprescindibile in un’ipotesi di patto sociale. Forse è proprio questa la ragione per cui non si solleva alcuna opposizione, in un modo o nell’altro a tutti serve il patto.

Non sappiamo quale potrà essere l’evoluzione della situazione sul terreno politico, aspetto non indifferente in questa vicenda. Il quadro è fortemente instabile e ogni scenario, compreso quello di un nuovo ricorso alle elezioni politiche non è da escludere. Tuttavia saranno solo i tempi a poter variare, non certo l’esito nefasto senza una mobilitazione sociale straordinaria che dica in maniera netta e inequivocabile No al patto sociale. A partire dalla costruzione di una piattaforma generale del mondo del lavoro e del non lavoro, unificante, capace di parlare davvero alla condizione concreta degli uomini e delle donne, non quella ipocrita rappresentata nei convegni che rimuove quanto è accaduto negli ultimi anni, e che parte esattamente dai bisogni. I bisogni, quelli negati e quelli da ri-conquistare, devono tornare al centro dell’iniziativa. Questo è il compito a cui siamo chiamati, senza indugio alcuno.

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